CRITICA
FRANCO SALVADORI
“Volevo realizzare una serie di lavori, attraverso il presente ciclo di opere denominate "Concetto della Separazione e Sottrazione", che concentrassero, in un unico contenitore, parte delle contraddizioni e delle ambiguità proprie del nostro momento storico”.
E così Luciano Bellet, con acume e levità, crea queste opere composite, sfuggenti, affascinanti. Il titolo stesso di tali lavori ci riconnette alla grande scuola concettuale italiana, quella stessa che, partendo da Lucio fontana, arriva ai nostri giorni ancora vigorosa e determinata nel proporre soluzioni tanto inedite quanto inusitate.
Dalla prima fase, quella della Separazione, in cui Bellet sceglie di celare la visione, di arginare "quel flusso abnorme di immagini che ormai condiziona tristemente la nostra quotidianità. Il mio negare, quindi, è tanto un atto di difesa della dignità della mia arte, quanto un atto d'accusa contro una prevaricazione mediatica dannosa e sostanzialmente gratuita. Siamo costretti a subire quanto non voluto o richiesto, in una continuazione azione d’ingerenza nelle nostre vite private”.
La Separazione introduce al fruitore l'aspetto elettronico dell’opera, "altro elemento entrato con prepotenza nella nostra quotidianità...e che nel bene o nel male appartiene al tempo in cui vivo e di cui posso fare uso, soprattutto perché tale uso viene applicato ad un contesto considerato anomalo, per cui sorprendente”.
Una volta svelata l'opera, si entra nel vivo dell'ambiguità della rappresentazione: un quadro? Una performance? Un’installazione? Una scultura? Probabilmente un agglomerato di elementi desunti dei vari media citati, ma esattamente nessuno di essi...
E cosa rappresenta il Dripping per sottrazione? “L'ho concepito come una sorta di paradigma dei nostri tempi. La parte estrapolata del dripping , una specie di negativo, che risulta perfettamente simile al proprio positivo, creando così un'altra condizione di ambiguità, quella stessa che vediamo usata con tanta sagacia dai comuni mezzi di informazione, specialisti della manipolazione dell'immagine come della parola”.
L'aspetto cromatico dei singoli lavori, concepiti con l'ausilio di luci a led, capaci di soluzioni coloristiche infinite, dà modo al fruitore di poter percorrere una via propria, personale, di interazione con l'opera stessa per ripristinare quel grado di libertà di gusti, pensieri parole che dovrebbe rappresentare uno dei caposaldi del nostro quotidiano vivere”.
GIOVANNI COZZARIZZA
Il gesto dell’artista (Pordenone 1963) evoca un viaggio nel mondo della psiche.
L'interesse è rivolto alla materia e alla sua trasformazione attraverso il gesto della mano e del fuoco. La creatività si esprime nell’azione e si concretizza nei segni lasciati sulla tela. I risultati sono ricchi di energia espressiva e le sgocciolature formano una trama di colori sovrapposti che esprimono un intenso pathos.
Bellet dipinge in uno stato mentale in cui le allucinazioni si combinano per comporre immagini astratte. Le rappresentazioni che derivano, originate dai recessi più profondi della mente, rimandano all'action painting.
Tutto sembra espandersi in una tensione incessante tra materia e antimateria, creazione e distruzione, essere e non essere.
Volta all'indagine sul tema della metamorfosi, la tecnica di Bellet prevede l'impiego della fiamma per martoriare il colore che si contorce e si raggrinzisce corrugato. Le concreazioni di materia pittorica, che paiono sospese nel vuoto, talvolta con consistenza scultorea, diventano metafora di
un tormento esistenziale. Una ricerca tesa a scoprire qualcosa di autenticamente genuino da opporre alla desolante mancanza di certezze.
Nelle intenzioni di Bellet c'è il desiderio di far riflettere sulla condizione esistenziale dell'uomo occidentale, affacciato sul crepuscolo della modernità, la cui vita è organizzata intorno allo schema produzione-consumo-profitto, Ma soprattutto di fare del fruitore d'arte un soggetto attivo e partecipe.
L’uomo contemporaneo è prigioniero di un impianto di vita schizofrenico.
È immerso nel ritmo frenetico del quotidiano, assorbito da un modello che afferma il primato della velocità, perciò è spesso sbadato, proteso ad altro. Questa condizione non favorisce la disposizione all'arte e alla ricerca di uno spazio-tempo da destinare alla riflessione per interrogarsi sul senso dell’esistenza.
E infatti persino chi pratica assiduamente le mostre ci va talora più per partecipare un evento mondano che per nutrirsi di cultura. L'uomo moderno non si alimenta dunque di cultura ma si limita a ingurgitarla, a consumarla come un prodotto, di corsa. Così, fatalmente, è destinato a restare culturalmente denutrito.
Chi vuole rapportarsi con i quadri di Bellet, invece, è costretto a rimuovere un sipario inglobato in una speciale cornice. Una trovata originale, per conferire solennità alla relazione con l'opera. Quasi a favorire l'instaurarsi di una liturgia, di un rito propiziatorio propedeutico alla contemplazione, per meglio disporsi alla comprensione, all'estasi e alla catarsi.
Bellet con queste opere introduce alla sua interpretazione dei tormenti e delle contraddizioni dell'animo umano e dell’esistenza, ma una cortina scorrevole impedisce la visione. Propone l'opera e al tempo stesso la nega, sottraendola in parte alla vista dello spettatore con un diaframma creato da una specie di quinta teatrale regolabile.
Sembra volerci ammonire: vuoi guardare arte adesso? E mette in guardia: forse non sarà gradevole. Poi avverte: ti va di riflettere ora sul senso della vita? Così, per esempio, si può decidere che non siamo dello stato stato d'animo giusto e possiamo rimandare la visione (e la riflessione) a tempi più ispirati.
Insomma, un gioco favorito da un espediente intrigante: trasformare gli spettatori da soggetti passivi a soggetti attivi, che, in qualche modo, possano interagire con il quadro, più compartecipi dell'evento artistico e dei suoi significati. Non è poco, se è vero che uno degli scopi dell'arte è proprio quello di porre delle domande e di far pensare.
ALESSANDRA SANTIN
Heidegger sottolinea la necessità di liberare la grammatica dalla logica; Cage scioglie parole e suoni dalla rigida partitura e dalla gabbia delle sintassi.
In entrambi i casi ci si accosta alla complessità del mondo come prodotto di - ciò che semplicemente accade - e si attua un gioco - di spazio e di tempo aperto - un lasciar essere, un abbandono delle regole, l'accettazione consapevole e fiduciosa del caos.
La categoria del caos, punto di convergenza tra il pensiero di Heidegger e la poetica di Cage, è tanto amata anche dell'artista Luciano Bellet. Il caos è via di lettura privilegiata delle sue opere. Infatti, in ciascuna di esse la realtà che tutto media anche il fare poetico dell’uomo, è generata dal caos, parola che non significa semplicisticamente disordine o confusione, ma innanzitutto apertura: il non ancora rivolto al possibile.
In questo spacco che spalanca, pensato a partire dalla “natura” che come si è detto tutto comprende anche la “cultura” dell'uomo, materia e colore sono puri assoluti e si prestano ad un evento mai definitivo.
Il caos resta quel modello a partire dal quale la realtà si apre alla luce e alla visione. Lo spalancarsi di luce e buio, “sacro caos” precede e segue ogni reale ed è, al principio, non differenza degli elementi.
Prima degli dei e dei mortali, del cielo e della terra, della guerra e della pace, del buio e della luce, del bianco e del nero vi è la differenza che accoglie e, solo in un secondo momento, separa.
La proposta di Luciano Bellet inizia a partire dal gesto violento e creativo che si impone al nero della materia e dalla separazione si illumina di colore.
Queste tensioni, dice Luciano Bellet, non sono il risultato di un’impressione “pura”; ogni lotta non è un oggetto semplicemente presente ma è un divenire dell'essere, a cui niente può ancora corrispondere.
A questo niente, Chaos di forze pure, Bellet vuole dare una misura poetica mostrandone gli elementi essenziali, come gli elementi di una cosmologia fatta di forze, di vuoto e di materia, energie necessarie alla vita, componenti essenziali della vista. Qui prende forma “l'essere che sarà”, embrione pulsante, seme carico di vento fecondo: cifra stilistica dei lavori di Bellet, metafora e sigla del suo nome.
La narrazione potrebbe concludersi così se l'artista non decidesse di andare oltre, di riflettere sulla necessaria partecipazione del lettore perché l'evento poetico possa prendere realmente forma nello sguardo sociale. -Tutto diviene reale attraverso l'incontro, vero nella relazione - sostiene l’artista.
Per questo pone un sipario che impedisce di vedere oltre, separa, chiude, regola, impone e azzera la forma, non per nascondere ma per interpellare e rendere il fruitore partecipe di una scelta. L'artista chiede al fruitore di entrare in un luogo, di partecipare al dialogo, di agire nella condivisione.
Sta dunque a chi si avvicina la decisione di vedere o meno, di sollevare il sipario facendosi carico di tempi e modi: velocemente e per intero, o secondo intervalli brevi che disvelano l’opera per fasi successive e parziali. Lo spazio ogni volta vergine si mostra ogni volta in modo nuovo ed esclusivo, prima di tornare al segreto del buio, all'enigma della notte, al dubbio e al caos.
Poetica dell'origine e della regola, della scoperta sempre di là da venire, l'arte del Bellet mostra e nasconde contemporaneamente, riconduce allo stupore della notte e della visione, contemporaneamente.
ANNESI ALBERTO
Concetto della Separazione - Dripping per Sottrazione: la fruizione consapevole dell’arte.
Che cos'è l'arte contemporanea e quali sono gli aspetti che la differenziano dal semplice complemento d'arredo o da una buffa trovata? Quali sono le scale dei valori e di mercato che riguardano l’arte?
Nel 20esimo secolo molti artisti hanno raggiunto notorietà e quotazioni altissime ma solo alcuni di loro sono riusciti a cambiare profondamente i concetti artistici e delle forme: Picasso attraverso il cubismo, Duchamp con l’inizio dell'arte concettuale, Pollock con il dripping e l’action painting, Fontana andando oltre la tela, tagliandola, bucandola, esplorando lo spazio che la attraversa...
Oggi tutto questo non ha più valore per la maggior parte delle persone. I condizionamenti, anche involontari, che riceviamo di continuo attraverso veri e propri bombardamenti mediatici fanno perdere ai più la capacità di discernere ciò che è bello da ciò che è brutto, tra il concetto profondo e le idee superficiali.
Anche le opere d'arte sono trascinate dal vortice di immagini, voci, suoni che quotidianamente internet, la televisione e i mass media in generale ci propongono. L'arte è fagocitata in un calderone multicolore...
Luciano Bellet, conscio del periodo storico in cui vive, decide di creare delle opere d'arte che immediatamente vengono negate alla visione del pubblico. Attraverso il Concetto della Separazione da lui ideato, decide di non gettarsi nella mischia, di non appartenere a un mondo che divora tutto e tutti in pochi secondi.
Le opere di Bellet sono costituite da una cornice metallica nella quale è contenuto un sipario motorizzato che cela il quadro al suo interno.
L'artista fa insorgere nello spettatore la curiosità e lo mette di fronte a una scelta: quella di decidere di fermarsi davanti all'opera negata e, solamente con un atto di volontà, di concentrazione e tramite l'azionamento di un telecomando svelare quello che sta dietro al sipario.
Il messaggio è forte e diretto: solo coloro che decidono di non essere condizionati da fattori esterni alla propria volontà avranno il contatto diretto e consapevole con l'opera d'arte diventandone parte integrante. Lo spettatore potrà decidere di leggere l'opera svelandola poco a poco e, riabbassando il sipario, potrà negarla a chi ritiene opportuno.
Ma Bellet, nel suo misticismo che lo accomuna a grandi artisti come Kandinskij, Klee, Mondrian, vuole lacerare il velo frapposto dall'apparenza sensibile per giungere a una più alta verità: al Concetto della Separazione somma il dripping per Sottrazione.
Riesce a rendere tridimensionale il dripping inventato negli anni 40 del Novecento da Pollock. Bellet fa gocciolare il colore su di un soffice supporto acrilico che poi scioglierà mediante un phon ad alta temperatura. Ciò che rimane è l'essenza del dripping, un ricamo di forme, gesti, vibrazioni che l'artista ci vuole comunicare. La ragnatela di emozioni così ottenuta verrà successivamente fatta aderire alla tela vera e propria preparata precedentemente e dipinta con lo sfondo necessario. Il dripping di Bellet rimarrà sospeso e non schiavo della tela, una una via e una ricerca profonde, ancora da esplorare.
GABRIELE ROMEO
Estratto da ExpoArt - Interview of an artist.
Luciano Bellet: rivoluzione e sintetica nell’arte post-tempore. Separazione vs sottrazione
Parlare di arte post-tempore nella nostra società, significa comprendere il ruolo che assume la “temporaneità” in rapporto al luogo verso il quale essa è destinata. Comprendere l'esigenza che l'artista sperimentale d'oggi deve combattere per cercare nuovi “media comunicativi” per la propria comunicazione, vuole significare: indicare la strada più appropriata per uscire da schemi mentali precedentemente precostituiti.
Per questo motivo offriamo ai lettori di ExpoArt questa intervista ad uno dei maggiori esponenti della rivoluzione mediatica e artistica che sta operando in Italia, riscontrando l'interesse della critica e del mercato dell'arte, in ambito nazionale ed internazionale: Luciano Bellet.
La sua visione del mondo minimale e non minimalista, sembra dischiudersi come la parodia pirandelliana di “uno, nessuno, centomila”.
Così Bellet, si pone nei termini di una identità che vuole mostrarsi là dove “l'immagine non diventa” oggetto di consumo, bensì riflessione e risultato dell'ingegno umano. Facendo ciò, genera un'opera d'arte composta da elementi relazionabili, ma allo stesso tempo indipendenti gli uni dagli altri.
La sua arte negazionista, apre anche ad una riflessione sul concetto del sublime come arteria pulsante nel cuore dell’arte.
L'artista mi ha concesso l’intervista nel suo luminoso studio a Zoppola in provincia di Pordenone. Ci ha raccontato le dinamiche del suo lavoro di ricerca, evidenziando la “necessità” per l'artista di andare avanti, senza fermarsi davanti agli ostacoli che potrebbe incontrare (di qualsiasi natura), nel corso del proprio cammino artistico.
FRANCO SALVADORI
CELARE MOMENTANEAMENTE L’INDICIBILE
La società del dominio non tollera che si narri l’indicibile. L'indicibile scuote dalle fondamenta i consolidati meccanismi del potere costituito, mette in crisi il convenzionale dettato da omologazione e consenso, (dis)turba nel profondo gli animi delle persone “normali” che si dimenano tra inibizioni, sensi di colpa ed auto-censure. Insomma, fa paura. L'indicibile è desiderio, piacere, libertà, delirio, rottura, ribellione, rivolta: in sintesi, l'indicibile è un urlo esplosivo. È materia che evolve, densa di tensione etica ma libera da briglie teo-teleologiche. In frangenti di sommovimenti di massa, l’indicibile esce violentemente allo scoperto e produce immediatamente storia in divenire: torsioni dialettiche, socializzazione altra, nuove visioni del mondo. Sono momenti in cui l'artista d’avanguardia si mescola pubblicamente al movimento reale e contribuisce, in una dimensione collettiva, ad anticipare il cambiamento. Quando i tempi sono invece segnati dal prevalere del buio e immobile di mistificazione e repressione soft-autoritaria (e quelli odierni lo sono), allora urlare l'indicibile non serve. Di più: non paga. È inutile sgolarsi nel deserto o sbraitare quando si ha di fronte la calma piatta del conformismo acquiescente. Cosa fa l'artista della guardia a questo punto? Cela momentaneamente l’indicibile, gli fa calare davanti un sipario provvisorio che ha la duplice funzione di preservarne - integra - la spinta dirompente e di separare nettamente la voce autonoma dell'artista del cicaleccio, sovradeterminato, tipico della vulgata egemone.
La società del dominio non tollera che si narri l’indicibile. L'indicibile scuote dalle fondamenta i consolidati meccanismi del potere costituito, mette in crisi il convenzionale dettato da omologazione e consenso, (dis)turba nel profondo gli animi delle persone “normali” che si dimenano tra inibizioni, sensi di colpa ed auto-censure. Insomma, fa paura. L'indicibile è desiderio, piacere, libertà, delirio, rottura, ribellione, rivolta: in sintesi, l'indicibile è un urlo esplosivo. È materia che evolve, densa di tensione etica ma libera da briglie teo-teleologiche. In frangenti di sommovimenti di massa, l’indicibile esce violentemente allo scoperto e produce immediatamente storia in divenire: torsioni dialettiche, socializzazione altra, nuove visioni del mondo. Sono momenti in cui l'artista d’avanguardia si mescola pubblicamente al movimento reale e contribuisce, in una dimensione collettiva, ad anticipare il cambiamento. Quando i tempi sono invece segnati dal prevalere del buio e immobile di mistificazione e repressione soft-autoritaria (e quelli odierni lo sono), allora urlare l'indicibile non serve. Di più: non paga. È inutile sgolarsi nel deserto o sbraitare quando si ha di fronte la calma piatta del conformismo acquiescente. Cosa fa l'artista della guardia a questo punto? Cela momentaneamente l’indicibile, gli fa calare davanti un sipario provvisorio che ha la duplice funzione di preservarne - integra - la spinta dirompente e di separare nettamente la voce autonoma dell'artista del cicaleccio, sovradeterminato, tipico della vulgata egemone.
Sceglie, quando a trionfare tutt’attorno sono l'alienazione ed il feticismo da società dello spettacolo, di isolarsi temporaneamente dalla communitas e di non esibire quanto di importante lo agita intimamente: sogni, pulsioni erotiche, rabbia, slancio innovatore, carica trasformatrice; ma anche dubbi, ansie, paure, dolore, malattia, morte.
Sarà lo spettatore scevro da pregiudizi, aperto ai cambiamenti e non timoroso delle contaminazioni “ad alto rischio” a far riemergere alla luce il “mostro”, rialzando lentamente quel sipario che l’artista aveva frapposto fra sé ed una società infettata dalla mercificazione, fra l'indicibile ed il “culturally correct". Con tale gesto, questo spettatore compie l’atto taumaturgico di restituire dialetticamente l'artista alla realtà sociale, delle cui dinamiche dominanti egli è sempre stato critico asperrimo. L'evento extra-artistico diviene, così, snodo concettuale e spazio-temporale.
Solamente la mediazione dello spettatore curioso, quindi, determinerà lo svelamento dell'indicibile. E lo stesso spettatore potrà poi liberamente riabbassare il sipario, se riterrà innanzitutto di dover proteggere ermeticamente l'intima sensibilità dell'artista oppure se intuirà che da questa sensibilità potrebbe farsi per pericolosamente travolgere.
GIANFRANCO GALASSO
Il percorso creativo di Luciano Bellet, profuso nella ricerca e sperimentazione del concetto di “separazione e sottrazione” lo conduce nella sua inconsapevolezza a essere padre del “Percezionismo”.
Ha tradotto nella concretezza materica il pensiero filosofico della percezione trattato già da R. Cartesio, che l’intende come ogni atto intellettuale di conoscenza.
In Bellet, oltre al concetto dei “Realisti” che l’esistenza non si può conoscere se non con la “percezione, si fondono anche i due criteri interpretativi della percezione: quello “Associazionistico” di D. Home e di J. S. Mill, considerata come il risultato del processo di “associazione psicologica” e quello di I. Kant e di G. F. Hegel, che viene interpretata come un “prodotto spirituale del soggetto”.
Si farebbe torto a Bellet e alle sue creature se non dovessimo tener conto anche del pragmatismo dello spiritualismo evoluzionistico che si sposa, nella metamorfosi evolutiva della vita, con la percezione della fenomenologia di E. Husserl che ha precorso la psicologia della Gestalt, in cui “la teoria di un processo associativo dell'intelletto viene sostituita da quella percezione immediata di un tutto globale e già strutturato”.
La struttura concettuale di Bellet unifica una molteplicità di sensazioni, portando alla formulazione nella propria coscienza dell'esistenza di un oggetto distinto da sé, sia mentale che fisico...
In Bellet si deve riconoscere, dunque, la paternità assoluta che ha creato la forma dell'infinito e che nel contempo riporta l'uomo alla sua essenza, alla sua origine.
Offre, sotto l’aspetto teologico, una risposta a Vito Mancuso che con il suo “La vita autentica” si pone la domanda: “Cosa fa di un uomo, un uomo vero?”
Non si sottrae nemmeno al pensiero socio-antropologico della “Terza persona” di Roberto Esposito, svelandoci il percorso del nostro quotidiano “io-tu”, che incontriamo e con il quale ci confrontiamo non appena svegli, ma che ci fa catturare anche la mistica partitura del “pensiero impensabile di George Steiner.
Il “Percezionismo” è il battito oltre la luce che pulsa in noi, che ci appare in ogni istante, ma che non sappiamo catturare se non con l'opera di Bellet, che ci dona con candida e gioiosa innocenza l'effervescenza della creatura che è in ognuno di noi perché, grazie a Bellet, risplende nel divenire della metamorfosi che ci rende non più cavalieri erranti dell’universo.
Il “Percezionismo" si eleva, a sintesi interpretativa del complesso e sofferto cammino che l’arte pittorica ha sempre dovuto sottostare nelle sue svariate enunciazioni storiche, nella profonda e intima ricerca all'introspezione dell'uomo nell’uomo e in ciò che lo circonda, traendone preziosa e sempre nuova linfa affinché l'arte pittorica non sia mai più una mera stenditura cromatica su di una tela.